La storia di Sciamma

4 May 2020 Mario Zerbini

La storia di Sciamma

Credo fosse l`inverno del `77 quando all`ITIS Giorgi quel gran simpaticone del Panoscia Franco mi consigliò di fare un salto, un pomeriggio o l`altro, in via Momigliano, nel negozio occupato da un non meglio precisato Collettivo di zona di cui anche lui faceva parte.

Dato che il suddetto Franco Panoscia, ai miei occhi, aveva sbaragliato ogni concorrenza in fatto di simpatia dopo avere affisso, durante un`Occupazione della scuola, all`ingresso della fatiscente Palestra, un tazebao in cui si raccomandavano una serie di “norme” di buona educazione da rispettare per poi concludere l`elenco con un lapidario “chi ha orecchie per intendere intenda, gli altri nel sacco a pelo”, ritenni certamente affidabile il suo consiglio e un pomeriggio qualunque  di quell`inverno del `77 mi ci recai.

Avevo messo piede a Milano il 1° Settembre del ´69, alla tenera età di 11 anni. Messo piede è proprio la parola giusta, perché all`epoca ero talmente rimasto impressionato da quanto appena successo solo qualche mese prima (il primo passo dell`uomo sulla Luna) che ricordo bene come quel 1° Settembre, dopo avere viaggiato attraverso l`intero stivale, scendendo dalla vecchia 850 Fiat color grigio topo di mio Padre e poggiando il piede a terra pensai ecco, questo è il mio primo passo sul suolo di Milano.

Mi sentivo come un`astronauta sbarcato in un mondo nuovo e tutto da esplorare.

E in effetti, come darmi torto?

Seguirono parecchi anni dimenticabili che, giusto per non annoiare nessuno e farla breve, potrebbero essere riassunti così: vissuti con la costante sensazione di essere sempre “fuori posto” ben accompagnata da un marcato senso di inadeguatezza a qualunque bisogna.

Insomma ero solo ma, come un grande della letteratura, centrando perfettamente il nocciolo della questione, ebbe la lucidità di scrivere: “..solo, ma non proprio. Siamo almeno in tre: me, me stesso e io” *

Dunque diventa superfluo, detto ciò, spiegare perché sia stata una specie di fantasmagorica Pasqua per me il poter finalmente condividere con dei miei coetanei emozioni, aspirazioni, rabbie, desideri e sostanzialmente OGNI COSA della vita quotidiana sia a scuola – nel movimento degli studenti – sia nel “doposcuola” – nel Collettivo Momigliano prima e, soprattutto, Stadera poi.

Quanto possiamo leggere nella Storia di Ester e in quella di Zeb rende molto bene l`idea di cosa siano stati quegli anni: una scuola di formazione, una palestra formidabile; politica, sociale, umana, personale e collettiva che – indipendentemente da dove e come siano finite le aspirazioni di quei giorni – ha permesso a tutti quelli che ne sono stati partecipi e protagonisti di appoggiare, diciamo così, il resto della propria vita su delle fondamenta non certo indistruttibili o impermeabili (quante volte nel corso della nostra successiva esistenza abbiamo dovuto “rivedere” le nostre convinzioni e quanto, quel “mettere sempre tutto in discussione” di allora, ci è servito in seguito a non rimanere impigliati in una ideologia o dogma o semplice convinzione slegata dalla realtà?) ma comunque sufficientemente solide – quelle fondamenta – da consentirci di non perdere la bussola, di orientarci, di non rassegnarci a dare le spalle al “vento” di questo o quel momento e da quel vento “alla moda” lasciarci trascinare, ma al contrario di mostrare la faccia a quel vento, opporvisi, andare controcorrente, appunto, quando è necessario.

Ecco, potrei fermarmi qui. Mi pare sufficiente. Anzi, lo è. Quello che segue, dunque, è da considerarsi come una nota a margine. È solo il racconto di un particolare episodio legato a quei giorni. Credo che ognuno abbia il suo, di ricordo particolare. Io ho questo. Mi piace e mi diverte ricordarlo, anche se dopo tutti questi anni, facile come niente che la mia memoria confonda più di un dettaglio. Pazienza. Quello che conta, si sa, è la sostanza.

Dunque, era una mattina come un`altra dei primi giorni di Marzo del `78 all`ITIS Giorgi. Casualmente ero in classe (le assenze, per motivi “politici” o per semplice cazzeggio, parliamoci chiaro, erano la regola) quando improvvisamente qualcuno (mi pare proprio Panoscia) spalanca la porta e tutto trafelato s`introduce in classe interrompendo la lezione: “Il Pellegrino (il Preside, ndr) ha sospeso tutti e 72 i  Delegati di classe!!”

Miii…un vero e proprio attentano alla democrazia di base! Lo stroncamento di tutto il nostro Consiglio dei Delegati, cazzo!, quel nostro piccolo e bel Soviet fatto in casa, nostrano, creato a immagine e somiglianza del mito originale.

Un atto di guerra bell`e buono quello del Pellegrino! E poi perché? Perché il CdD si era riunito giorni prima senza l`autorizzazione della presidenza. Tzee…

Assemblea Generale! Subito! Tutti in cortile!

Il cortile era grande a sufficienza per contenere l`indignazione generale, quel guazzabuglio unico e caotico che solo una massa di centinaia e centinaia di studenti può esprimere: slogan contro la repressione ma anche frizzi e lazzi, urla di rabbia ma anche fischi e pernacchie, insomma di tutto un po’.

La massa era radunata sotto la rampa che portava a…dove portava? Non ricordo.

Comunque c`era questa rampa sopraelevata nel cortile e, appoggiati alla ringhiera che la delimitava, ci stavamo tutti noi, i sospesi del CdD, tutto il piccolo Soviet al completo insomma. E in qualche modo, certamente, un po’ ci sentivamo tutti dei piccoli Lenin, intervenendo con infervorati discorsi a braccio lì, su quella rampa sopraelevata, la folla sotto, plaudente.

Mò, quando è stato il mio di turno d`intervenire, davvero non so più in preda a quale furore insurrezionale, furore del tutto estraneo, tra l`altro, alla mia natura di ragazzo sostanzialmente mite e generalmente dedito alla ricerca di soluzioni diplomatiche – per indole, prima ancora che per scelta politica – com`è e come non è, sta di fatto che, senza che la cosa fosse stata prima discussa o deliberata come da prassi, né presa minimamente in considerazione in precedenza, evidentemente travolto dall`enfasi della situazione, m`è venuta letteralmente alle labbra, proprio così, come dire, al momento, praticamente nello stesso istante in cui la pensavo – e comunque senza che assolutamente mi rendessi conto di cosa concretamente avrebbe significato né tantomeno delle conseguenze che avrebbe comportato –  questa proposta a dir poco strobosferica ( e in qualche modo esilarante, col senno di poi, da indiano metropolitano, per così dire):

“Bene Compagni! Il Pellegrino ci ha sospesi? Allora propongo di…cazzo!,di rispondere in maniera esatta e contraria: sospendiamo noi il Preside! Per cinque giorni! Per condotta antidemocratica!”

E mentre ero ancora lì a cercare di capire, io stesso per primo, che cosa cavolo avessi appena detto, apriti cielo!: urla di giubilo tra la folla! Applausi a scena aperta! Libri, sciarpe, berretti lanciati in aria!

A dir poco un tantinello spiazzato, non certo dalla reazione della folla, quanto dall`enormità della proposta che avevo fatto e di cui ora già vedevo chiarissime davanti a me le pesanti conseguenze penali che avrebbe comportato nel caso fosse stata davvero messa in pratica, mi volto a guardare gli altri piccoli Lenin attorno a me. Gli altri piccoli Lenin attorno a me mi guardano. Insomma, ci guardiamo. Con negli occhi lo sgomento di chi si chiede e chieda: vabbè, e mò?

Uno di quegli attimi congelati che durano un`eternità.

A quel punto, visto che oramai l`avevo sparata bella grossa per davvero, in qualche modo ho realizzato che avrei dovuto andare avanti imperterrito, come se davvero fosse, mostrandomi sicuro, come se davvero sapessi quello che stavo dicendo, insomma prendermi fino in fondo sul serio nella speranza di essere preso sul serio fino in fondo (magari tra parentesi, ma ammettiamolo: di cialtronismo populista qualcosa ne sappiamo…).

“Metto ai voti la proposta!” urlo alla folla. E con gli occhi che implorano pietà, guardo chi mi sta vicino cercando conforto. Non la mia bocca, sono proprio i miei occhi spalancati a chiederlo: …cazzo, faccio bene, no? Gli altri mi guardano e, chi lo sa se perché credessero che fossi davvero cosciente di quanto stessi proponendo o semplicemente perché colmi della gratitudine di chi, non sapendo più che pesci pigliare, tira un sospiro di sollievo perché qualcun`altro ha tratto il dado e vada come vada, con gli occhi e con la testa mi fanno si, bè…si!…si!

 

Inutile dire che la ridicola proposta fu accettata all`unanimità. E tralascio i dettagli di quello che ne è conseguito, cosa ha significato tenere il Preside fuori dall`Istituto: tra le altre cose, ovviamente, una condanna a 8 mesi con la condizionale per violenza privata a pubblico ufficiale, poi ridotta a 3 in appello, affibbiata a Garetti, Panoscia e me (“sempreassiemeeravamo, sempreassieme”)** e anche al buon Morandi (RIP).

Ma la vera conseguenza drammatica per me ( vissuta proprio quel giorno ) fu un`altra, non politica ma personale. A seguito del suddetto consiglio del Panoscia, ormai da tempo  frequentavo Stadera, il Collettivo di viale Cermenate intendo. E certo, più o meno, davo il mio contributo alla causa, ma a essere sincero, se davvero devo dirla proprio proprio fino in fondo, allora mettiamola giù così: intanto mi guardavo attorno. E a furia di guardarmi attorno, toh, mi sono innamorato per la prima volta. E di chi? Di Laura. La Martini. Sarebbe come a dire: l`Italia che s`innamora della Nuova Zelanda. Ma vabbè, un citrullo di quasi vent`anni io, poco più di una bambinona lei.

E – guarda te alle volte che ti combina la vita – proprio la sera prima di quel giorno di Marzo ero riuscito – vincendo chissà più quante paure, ma comunque vincendole solo dopo che qualcuno che conosceva bene sia me che lei mi aveva assicurato che “si, si, anche tu le piaci” (Panoscia, è chiaro, e chi altrimenti? c`è sempre lui dietro tutta questa sporca faccenda) – ero riuscito, dicevo, a telefonarle per dirle quanto mi sarebbe piaciuto incontrarla il giorno dopo all`uscita del Manzoni, la scuola che frequentava. Tipo, all`una? Ok, all`una davanti al Manzoni. Wow! Aveva acconsentito (quel prezzemolo del Panoscia! Stai a vedere che stavolta ci aveva azzeccato!) e sembrava pure contenta, insomma anch`io lo ero, tutt`e due felici e contenti di incontrarci il giorno dopo all`una davanti al Manzoni.

Cristosanto, che storia!, mi dicevo. Quasi quasi da lì a poco avrei potuto finalmente smettere il casco da astronauta e sentirmi “a posto”.

Invece poi…proprio il giorno dopo…quella travolgente e imprevedibile catena di eventi…sospensione del “Soviet”, ribellione, assemblea, contro sospensione…insomma, mobilitazione generale e totale, tutte le forze disponibili in campo, picchetti, tu fai questo, voi quest`altro, tu chiama Radiopop, arriva la Polizia, Cordoni Compagni!!…

Ora, mettetevi nei miei panni, dopo tutto quel po’ po’ di bordello che, in qualche modo, con la mia “originalissima” proposta avevo contribuito a creare, potevo io, verso le 12, 12 e mezza – cioè nel bel mezzo dell`insurrezione in corso – dire a tutti gli altri piccoli Lenin: “ehmm…compagni…scusate né, ma…ecco io…io dovrei proprio andare…no, no, non è che scappo!…cioè, minchia, come posso dire?…è il primo vero e proprio appuntamento sentimentale della mia vita, cazzo!…non penserete mica che me la stia squagliando, né?…”

 

Ovvio che non potevo. Restai a scuola. E così, nel pigia pigia dell`affollatissimo atrio del Giorgi, zeppo di studenti e polizia, mentre il Garetti (che sovrastava tutti di almeno una capoccia e mezza) lanciava a tutta voce “TRIBUNALI E CARCERI/ SALTERANNO IN ARIA/L`UNICA GIUSTIZIA…” e tutti i rivoltosi, ringalluzziti dal garettiano impulso, si accodavano alzando la voce per seguirlo nello scandire lo slogan, io, mogio mogio, mi limitavo ad aggregarmi giusto sul finire, condividendo flebilmente “ è quella proletaria”, ma con il tono silenziato di un cane bastonato,  un cucciolo di cane è meglio dire, perché il mio pensiero era lontano, andava alla mia bella che proprio in quel momento era lì, davanti alla sua scuola ad aspettarmi invano.

E nonostante fossi vagamente cosciente della stupefacente popolarità guadagnata tra le masse in quella giornata, per quanta vanagloria e orgoglio e vanità tutto ciò comportasse, e nonostante quella fastidiosa parte disfattista presente in me continuasse a ripetermi  “meglio così Sciamma…meglio così…che diavolo saresti stato capace di dirle?…che cosa saresti stato capace di fare?…meglio così…parliamoci chiaro, non avresti saputo nemmeno da che parte iniziare”…nonostante tutto questo, lo stesso, a prevalere in me in quel momento era l`amarezza di non esserci potuto andare a quell`appuntamento, il desiderio, il bisogno di andare follemente a sbatterci contro a quell`emozione. Comunque!

 

Straordinario vivere quei giorni. Nel bene e nel male. È stata una specie di grazia di dio, l`esserci capitati perfettamente in mezzo.

 

 

*J.D. Salinger

**A. Pazienza